Categorie e famiglie dei cocktail

Nonostante la tendenza attuale sia quella di ridurre e contaminare le svariate suddivisioni usate in passato, può essere utile fornire una breve ricapitolazione delle diverse categorie adoperate tradizionalmente nel mondo dei bar.

Nel corso della seconda metà del XX secolo sono state usate per lo più macro-categorie facenti riferimento al momento della giornata più adatto a bere il cocktail o alle quantità di liquido da cui è composto. Vediamole:

In base al momento della giornata
  • Pre dinner o Before dinner (aperitivo). Cocktail che dovrebbero stimolare l’appetito o accompagnare qualche stuzzichino o pietanze leggere in attesa del pasto vero e proprio. Possono essere poco alcolici, come l’Aperol Spritz, o decisamente forti come il Manhattan e il Dry Martini. Di solito prevedono tra gli ingredienti alcuni prodotti tipici della tradizione italiana, come il vermouth e il bitter, caratterizzati da sapori dolci e amari allo stesso tempo.
  • After dinner. Cocktail da dopo cena, con funzione per lo più digestiva (come Sazerac e Black Russian, ma secondo noi anche White Lady o Sidecar, che altri considerano All day) o di accompagnamento e/o sostituzione del dessert (come French Connection, White Russian, Alexander e Grasshopper). I digestivi si basano spesso su distillati secchi e liquori amaricanti o erbacei, oppure sulle proprietà rinfrescanti della menta e sull’acidità degli agrumi; gli After dinner più dolci uniscono ai distillati liquori dolci, creme (liquori con da 200 a 500 gr. di zucchero per litro), panna fresca, frutta e gelato. In alcuni casi, come lo Stinger, dolcezza e funzione digestiva sono più sfumate ed entrambe presenti.
  • All day o All time o Anyhours. Categoria piuttosto nebulosa, che forse sarebbe più onesto chiamare “Tuttoilresto”: si va da long drink leggeri e dissetanti come il Gin Fizz a bevute impegnative come il Between the Sheets, dai sapori agrumati e aciduli di un Lemon Drop Martini a quelli morbidi e dolci della Piña Colada.
In base alla quantità
  • Short drink, 60-90 ml di quantità totale degli ingredienti. Solitamente sono cocktail molto alcolici e dal sapore intenso; possiamo trovare in questa categoria sia gli aperitivi secchi come il Dry Martini che degli after dinner pousse-café del tipo del B-52.
  • Medium drink, 100-120 ml di liquido. Spesso sono cocktail Sparkling a base di vino spumante, ma possiamo trovare anche altre basi. Sono bevande in cui la carica alcolica è ben percepibile, ma non tanto da impensierire un bevitore “occasionale”.
  • Long drink, oltre i 120 ml. Si tratta di drink in cui la parte alcolica è decisamente inferiore a quella analcolica. La loro funzione principale è quella di dissetare e rinfrescare, e in essi svolgono un ruolo fondamentale i succhi di frutta o le sode (neutra, tonica, cola, ginger beer, ecc.).

Nel corso dell’Ottocento e nei primissimi decenni del Novecento erano molto usate – e bevute – alcune tipologie di cocktail riferibili a elementi comuni riguardo a ingredienti, sapori, tecniche di preparazione, bicchieri di servizio o guarnizioni. Visto che a partire dal XXI secolo è in atto una grande riscoperta della miscelazione classica e che sempre più spesso i barman recuperano o variano ricette che sembravano dimenticate da tempo, ci sembra utile procedere a una descrizione sintetica ma ponderata delle tradizionali famiglie dei cocktail storici.

Le famiglie
  • Daisy. Questi cocktail nascono shakerati, composti da una base alcolica (in origine brandy, poi anche whiskey e gin), succo di limone, un dolcificante (gum syrup, granatina, orzata) e soda; la funzione dolcificante spesso è svolta anche da un liquore dolce, come il triple sec, il maraschino o l’amaretto. Di solito erano serviti on the rocks in un bicchiere tumbler basso. Sono molto simili ai sour e infatti spesso troviamo il Margarita, che comunque non ha la soda, associato a entrambe le categorie.
  • Sour. Aperitivi bevuti in realtà anyhours, shakerati, composti da distillato, succo di limone e sciroppo di zucchero; sul bilanciamento di questi due ingredienti si gioca la riuscita del drink, che non deve essere né dolce né acido. Non obbligatorio ma quasi mai omesso è l’albume d’uovo, che conferisce una consistenza cremosa e vellutata. I sour si possono servire con ghiaccio o senza, nel goblet o nel tumbler basso.
  • Fizz. Distillato, succo di limone o lime, sciroppo di zucchero; shaker; soda. Si servono nel tumbler alto su nuovo ghiaccio. Come è evidente le somiglianze con le prime due categorie sono molte; la differenza principale è che i Fizz sono long drink freschi e poco alcolici. Il Gin Fizz è al momento l’unico superstite in buona salute della famiglia.
  • Collins. Simili in tutto e per tutto ai Fizz, ma non shakerati, bensì preparati direttamente in un tumbler alto e stretto che da loro ha preso il nome. John Collins e Tom Collins sono i fratelli maggiori; rispetto ai Fizz hanno anche l’aggiunta di un’aromatizzazione con l’Angostura.
  • Rickey. Una delle categorie di più ostica definizione, su cui le fonti discordano in modo significativo. Noi proviamo a fare una sintesi, riservandoci di rivedere le nostre conclusioni alla luce di nuove letture. I Rickeys dovrebbero essere medium ma soprattutto long drink caratterizzati da distillato (whiskey dapprima , poi sempre più spesso gin), succo di lime (c’è chi dice anche limone, ma pare un’aggiunta posteriore) e soda. Lo zucchero o è assente o è in quantità minore rispetto a quello delle categorie precedenti; la differenza fondamentale sembra infatti proprio quella del sapore, nei Rickeys decisamente meno dolce. Il ghiaccio è a cubetti o tritato, la tecnica shake and strain o build.
  • Cobbler. Long drink a base di frutta a pezzi, zucchero e ghiaccio tritato. La base alcolica in origine era costituita da Porto, Sherry, vini fortificati; oggi si usano anche vini spumanti, liquori e distillati. In ogni caso si tratta di cocktail tipicamente estivi e colorati, adatti alla convivialità e alle feste.
  • Crusta. Pare che la prima crusta di zucchero, ottenuta passando il bordo del bicchiere in un piattino cosparso di zucchero, dopo aver strofinato una fettina di limone sul bordo stesso, sia stata realizzata dal barman Joseph Santini a New Orleans a metà del XIX secolo. Oggi i crustas sono un po’ démodés, al punto che spesso persino il Sidecar viene servito senza, ma un tempo erano in gran voga e prevedevano la miscelazione di distillato, succo di limone e triple sec e/o maraschino; e crusta di zucchero, ovvio. Ultimamente viene spesso riproposto l’antico Brandy Crusta, ma è curioso notare come la crusta più nota e usata, oggi, sia quella di sale del Margarita…
  • Grog. Short drink caldi composta da distillato (di solito rum), acqua bollente, spezie, scorze o succo d’agrumi e zucchero. Questa bevanda corroborante e adatta alle fredde serate invernali nasce in realtà in ambito caraibico, quando l’ammiraglio della Royal Navy Edward Vernon migliorò la normale usanza della marina di aggiungere alcolici all’acqua di bordo per farla imputridire più lentamente. L’uso degli agrumi in più aveva una funzione anti-scorbutica grazie alla presenza in essi della vitamina C. Se volete prepararveli a casa evitate le spezie in polvere e serviteli in bicchieri o tazze idonei a contenere liquidi bollenti.
  • Punch. Bevande simili ai grog, ma rispetto a questi servite sia calde che fredde e di solito in grandi recipienti – bowl – da cui attingere con mestoli per riempire le proprie tazze. Il Punch è attestato negli ambienti della Marina britannica fin dal XVII secolo e sembra anch’esso avere origine dall’esigenza di costringere i marinai ad assumere la loro dose di agrumi e a non bere pura ma diluita la loro razione di rum. Il termine potrebbe derivare da una parola persiana o forse sanscrita che significa cinque, come gli ingredienti che ne costituiscono la ricetta: aromi vari, agrumi, zucchero, acqua, alcool. Nelle Barbados si è poi diffuso un ritornello per memorizzare le proporzioni dei suddetti elementi: “One of sour, two of sweet, three of strong, four of weak, a dash of bitters and a sprinkle of spice, serve well chilled with plenty of ice”, ovvero “una parte di aspro (il lime o il limone), due di dolce (lo zucchero), tre di forte (il distillato), quattro di debole (l’acqua o il thè), un po’ di aromi e spezie, servire ben freddo con ghiaccio”.
  • Julep. Sono cocktail che si basano su un distillato, foglie di menta leggermente pestate, zucchero e buona diluizione, con acqua o ghiaccio tritato; in alcuni casi può essere aggiunto un altro ingrediente, come succo di agrumi, di frutta o liquori vari. Il termine deriva probabilmente dal persiano “gulab”, ovvero l’acqua di rose, arrivato in Occidente attraverso la mediazione dell’arabo; dallo stesso termine deriva anche l’italiano giulebbe. Il passaggio dalle rose alla menta è poco chiaro, ma forse la chiave è da cercare nel sapore dolce di entrambi i preparati. Il Mint Julep, bevanda tipica del Sud degli Stati Uniti, è da tempo a base whiskey, ma quasi sicuramente è nato con il rum e il cognac.
  • Flip. Cocktail energetici dall’origine antica, caratterizzati dalla presenza dell’uovo intero o soltanto del tuorlo; gli altri ingredienti sono un distillato e/o un vino liquoroso e lo zucchero. Sono dolci e cremosi, non per tutti i gusti a causa della presenza dell’uovo crudo (adoperate quelli pastorizzati!), di solito guarniti con noce moscata. Un tempo erano all’ordine del giorno, oggi sono tra i drink meno richiesti negli american bar. Pare che il primo flip, creato in Inghilterra nel Seicento, fosse in realtà una miscela servita calda di birra, rum e zucchero.
  • Sparkling. Tutti i cocktail a base di Champagne o vini spumanti; eccellenti aperitivi, validi in ogni momento della giornata.
  • Frozen. I cocktail preparati frullando nel blender gli ingredienti e il ghiaccio, fino a ottenere una consistenza da granita molto cremosa. Leggeri, rinfrescanti, estivi, di solito hanno frutta fresca, succhi di agrumi, zucchero e liquori dolci fra gli ingredienti.
  • Pestati. Si preparano pestando con il muddler gli ingredienti direttamente nel bicchiere. Il Mojito viene assegnato a questa categoria, anche se impropriamente, perché pestare troppo la menta equivale a rovinarla. Un uso energico del pestello è invece indispensabile quando si lavorano gli agrumi, in modo da far uscire il succo ma anche gli olii essenziali della scorza: basti pensare alla Caipirinha. Gli altri ingredienti sono di solito un distillato piuttosto dolce come il rum o la cachaça e lo zucchero, semolato o in sciroppo.

Questo è tutto – segnalateci sviste, errori e dimenticanze – per quanto riguarda le tradizionali categorie e famiglie. Se l’articolo vi sarà utile per orientarvi quando scorrerete una drink list, o ad avere dei riferimenti quando proverete a ideare qualche nuovo cocktail, o anche semplicemente a soddisfare una curiosità di ordine storico, ne saremo felici. Se invece ne siete usciti più confusi di prima o addirittura annoiati, non potrà che dispiacerci. Ma in ogni caso considerate che alla fine le uniche due categorie importanti da tenere bene a mente sono personali per ognuno di noi, del tutto insindacabili e semplici da individuare: “Mi piace” o “Non mi piace”!